Le aziende sono fatte di persone. Il cuore del mestiere dell’imprenditore sta nel coordinare le persone per raggiungere un obiettivo comune. Perciò, la gestione efficace dei team è un obiettivo fondamentale per il successo dell’impresa.
“Il talento fa vincere le partite, ma il lavoro di squadra e l’intelligenza fanno vincere i campionati” – Michael Jordan
Un dato di fatto oramai incontrovertibile è che nell’ultimo decennio il lavoro intellettuale è stato stravolto nelle sue modalità, se non anche nella sostanza. In particolare, l’accessibilità istantanea alle informazioni e la facilità di condivisione dei dati in tempo reale hanno reso estremamente fluido il mondo del lavoro e rivoluzionato i metodi di gestione dei team.
Oggi, un individuo può far parte di un gruppo i cui membri si trovano in luoghi diversi e lontani tra loro, e può comunicare efficacemente attraverso strumenti eccezionali (come Slack, Trello, Skype e moltissimi altri) che fanno sembrare l’email un retaggio arrugginito di un passato ormai remoto. Non esistono più gli orari di lavoro, non esiste più un “ufficio”.
Il fattore umano
In tutto ciò, è fin troppo facile perdere di vista il fatto che dietro ad ogni schermo c’è un essere umano, dotato di un universo di sentimenti, desideri, problemi, aspirazioni, necessità. L’uomo nella sua meravigliosa complessità continua a rappresentare la costante immutabile del sistema; tutto il resto non è che strumento, che può semplificare o complicare il raggiungimento dell’obiettivo.
Perciò, che un team si trovi tutto riunito in una stanza o a chilometri di distanza, il successo o il fallimento dipende sempre da quanto e come si riesce a lavorare insieme. Lo sport, per fortuna, ce lo ricorda ogni giorno.
Contemporaneamente, gestire le persone è da sempre – e, probabilmente, lo sarà per sempre – la missione più difficile di tutte; perciò, non deve sorprendere che nel mondo del lavoro sia pieno di manager (che magari si credono leader) alla ricerca di scorciatoie facili, accecati dal “tutto e subito”, che affidano le loro speranze alla tecnologia per poi restarne inevitabilmente delusi.
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Le Cinque Disfunzioni di un Team
Esistono molte teorie sulla gestione dei team; nella mia esperienza ho trovato particolarmente efficace il lavoro di Patrick Lencioni, consulente americano specializzato nello sviluppo di team e nella salute delle organizzazioni, autore di diversi saggi di successo tra i quali The Five Dysfunctions of a Team.
Lencioni va dritto al cuore del problema, mettendo da subito sul piatto le questioni critiche come la motivazione, le aspirazioni, le ragioni alla base dei comportamenti degli individui. Secondo l’approccio – provocatoriamente in negativo – di Lencioni, vi sono 5 potenziali disfunzioni in ogni team, strettamente connesse tra loro in un rapporto di dipendenza. Il cammino per il miglioramento è sempre un percorso in divenire, senza un vero punto di arrivo; si può dire però che risolte queste disfunzioni si può ottenere un gruppo efficiente, produttivo, felice.
L’elenco che segue vuole mostrare in generale cosa sono queste disfunzioni e come interagiscono tra loro, e stimolarne uno studio più approfondito. Questa invece è la struttura – non a caso a piramide – delle 5 Dysfunctions.
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L’assenza di fiducia
Alla base della piramide si trova l’assenza di fiducia tra i membri del team. Senza fiducia reciproca, tendenzialmente non si può nemmeno parlare di “team”. La domanda chiave, tutta via, è: fiducia in che cosa? Di quali aspetti degli altri dobbiamo fidarci? Il fraintendimento più comune è che la fiducia debba essere riposta nella coerenza di comportamento e nel mantenimento degli standard qualitativi, o nel fatto che qualcuno non sbagli.
Siamo esseri umani, tuttavia, e in quanto tali fallaci; Lencioni fa notare che così resteremmo sempre, inevitabilmente delusi.
La fiducia invece è la certezza che le intenzioni degli altri membri del team siano positive; possiamo sbagliare, e perciò non bisogna temere di rendersi reciprocamente vulnerabili: ovvero ammettere gli errori, chiedere aiuto, accettare domande e feedback sul proprio comportamento, evitare il “pensar male”.
La paura del conflitto
A nessuno piace discutere. Peggio ancora, quando si teme di perdere, o di essere costretti ad ammettere di aver sbagliato. Spesso, inoltre, proprio per queste ragioni il conflitto sfocia in ambiti personali, legati all’aspetto fisico, ai valori, o in genere ad elementi che non riguardano l’argomento di cui si sta discutendo.
Perciò si tende naturalmente ad evitare il conflitto. Eppure, il conflitto produttivo è uno degli ingredienti chiave per il successo di un gruppo. In sua assenza, o si ha armonia artificiale (sembra che vada tutto bene, ma solo perché nessuno affronta gli argomenti caldi) o un conflitto nocivo, perpetuo ed improduttivo.
Il conflitto produttivo, invece, si può avere solo se nel gruppo esiste una fiducia basata sulla vulnerabilità. Ciò perché scompare la paura, ci si considera tutti sullo stesso piano, e si instaura una discussione basata esclusivamente sulle idee.
Il più grave danno che un conflitto improduttivo possa causare al gruppo è rappresentato dalla terza disfunzione.
La carenza di impegno
Cosa garantisce che tutti i membri del gruppo, una volta lasciata la discussione, non solo rispettino, ma anche promuovano come propria la decisione presa dal gruppo?
Se il conflitto non c’è, o è negativo, è estremamente probabile che il disaccordo non emerga. Chi non riesce ad esprimere la propria opinione e non viene ascoltato, difficilmente farà propria una decisione altrui.
Lencioni individua due cause principali della carenza di impegno: la ricerca del consenso a tutti i costi e la necessità della certezza di aver preso la decisione corretta.
Al contrario, la consapevolezza che raramente si raggiungerà consenso unanime, e che tuttavia una decisione va presa, consente di allineare tutti sulle giuste aspettative. Allo stesso tempo, è necessario essere consapevoli che non esiste una decisione “giusta” a prescindere, e che le conoscenze per prendere decisioni valide nella stragrande maggioranza dei casi risiedono già all’interno del gruppo. Piuttosto, è necessaria un’attitudine favorevole ad apprendere anche tramite gli errori, che vanno visti come una fonte preziosissima di informazioni.
La fuga dalla responsabilità
Chi non si impegna a mettere in atto la decisione del gruppo, di fatto sta cercando di sottrarsi alle proprie responsabilità. Eppure, secondo Lencioni il senso di responsabilità non è un fatto esclusivamente individuale. Anzi, al contrario, in ossequio all’assioma secondo cui “la velocità di un’organizzazione equivale a quella del suo membro più lento”, per mantenere elevati gli standard qualitativi del lavoro è necessario che i membri del gruppo si richiamino reciprocamente alle rispettive responsabilità.
In questo modo, ci si assicura che chi ha performance più basse rispetto al resto del gruppo senta sempre la pressione a migliorare, che i problemi vengano identificati prima mettendo in discussione l’approccio degli altri, che vi sia profondo rispetto reciproco tra i membri del team – che sono misurati sugli stessi standard elevati – e che non sia necessario ricorrere a strutture troppo burocratiche per il controllo della performance.
Principale ostacolo? Il disagio che si prova nel richiamare il proprio pari per il suo comportamento. Disagio senza dubbio ridotto nel momento in cui vi sia un solido rapporto di fiducia alla base.
La mancanza di attenzione verso i risultati
La presenza delle disfunzioni elencate finora determina, in ultima analisi, disattenzione per i risultati (intesi qui in senso non soltanto economico). In altre parole, i soggetti cessano di preoccuparsi dell’esito delle proprie azioni e tendono ad adottare comportamenti individualistici, dettati da status (“sono il capo”) o da un ego non più al servizio dell’obiettivo comune.
Non è difficile capire perché questa disfunzione sia stata posizionata sulla punta della piramide: il raggiungimento dei risultati (anche quelli intermedi, in funzione del raggiungimento dell’obiettivo finale) rappresenta il fine ultimo dell’esistenza stessa del gruppo.
Un team che funziona
Come si comporterà, dunque, un team che funziona?
- Vi sarà fiducia reciproca e disponibilità a rendersi vulnerabili gli uni con gli altri
- Il conflitto non solo non sarà temuto ma sarà attivamente cercato, come strumento migliore per prendere le decisioni
- Una volta dato ascolto a tutti, ogni membro del team difenderà e promuoverà la decisione del gruppo come fosse propria, anche se era in disaccordo
- Tutti i membri del team si interessano degli ambiti di responsabilità degli altri e si richiamano reciprocamente
- Ogni membro del team si assicurerà che i propri comportamenti contribuiscano al raggiungimento dell’obiettivo del gruppo, senza agende personali nascoste e conflitti di interessi.
Se mancano i comportamenti virtuosi, non c’è tecnologia che tenga.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul blog di Fourmarketing.